VC VC VC ma checcavolo è sto VC?

Tra tutti i neologismi e gli acronimi che sono nati su Internet questo, che non affatto nato in rete, è quello che ogni volta non riesco a ricordare. Così alle conferenze la gente parla di “vì-ssì” e io perdo dieci secondi e capire di cosa stiano parlando.
Il Venture Capital o capitale di rischio (o di ventura, affidandosi all’etimo) è una certa quantità di denaro che viene offerta in finanziamento ad una impresa di piccole dimensioni, nell’ottica di aiutarla a crescere e di riuscire ad ottenere indietro la cifra iniziale moltiplicata per fattori che possono superare ampiamente la decina. Ovviamente questo genere di investimento è tra i più rischiosi in assoluto.

Recentemente ho conosciuto tre persone che si occupano di queste cose. La prima persona è Reshma Sohoni, CEO di SeedCamp.

SeedCamp

SeedCamp è un progetto che si propone di aiutare le piccole imprese a raggiungere traguardi importanti. All’inizio dell’anno è stata svolta la “SeedCamp week” in cui venti piccole realtà imprenditoriali vengono selezionate e messe in contatto con persone provenienti da grandi aziende affermate. Attraverso l’interazione con questi mentori e ad un periodo di tempo fortemente organizzato e strutturato alla formazione, queste aziende evolvono e vengono ulteriormente selezionate. Di queste venti ne sono state scelte sei, alle quali è stato acquistato il 10% della proprietà in cambio di cinquantamila euro. Per il resto dell’anno verranno accompagnati passo-passo nello sviluppo delle loro attività e successivamente avviati alla fase successiva di Venture Capital.

La prima fase affrontata da SeedCamp, si chiama “Seed Stage Founding”, cioè finanziamento germinale, se mi si lascia questa licenza dialettica. In pratica è piantare il seme e vedere se nasce qualcosa. Se questo dovesse avvenire, verranno successivamente avviati i piani di finanziamento successivi, finalizzati alla crescita di un albero sano e robusto.

A questo punto entra in scena il secondo personaggio che recentemente ho conosciuto: Yoav Leitersdorf.
L’incontro con Yoav è stato stato molto curioso, ma forse solo per me che non sono abituato a certe situazioni. Mentre mi trovavo a Berlino, al web 2.0 Expo ho ricevuto un messaggio su crowdvine, ne quale mi si chiedeva se fosse possibile incontrarsi per scambiare due chiacchiere. Così è stato e insieme ad Alberto Dottavi ho avuto modo di conoscere un altro protagonista del VC.

YL Ventures

Il video dell’intervista a Yoav sarà disponibile prestissimo, ma per il momento mi limito a raccontare l’attività svolta dalla sua impresa, la YL Ventures.
L’azienda di Yoav entra in scena successivamente alla fase di seeding, quindi la piccola impresa è già avviata sul piano organizzativo e ha già superato la prima fase di rischio. A questo punto vengono valutati i parametri di crescita e vengono erogati fondi per cifre molto alte. Si parla di numeri che superano le 6 cifre. Yoav sostiene che il fattore moltiplicativo di questa fase di finanziamento supera il 20 e che i casi di successo sono intorno ai 3 su dieci. YL Ventures, a detta del suo Managing Partner, preferisce mantenere fattori moltiplicativi più basi in cambio di rischi minori, per cui si limita a 5 per quanto riguarda il capitale di ritorno e rimane intorno ai 7 casi di successo su 10.

E in Italia?

Bella domanda… Recentemente ho partecipato al VentureCamp a Roma, un barcamp in cui il tema principale era il capitale di ventura ma la sensazione che ho avuto, da profano, è che molti dei partecipanti siano usciti dal barcamp con la conferma alle loro convinzioni iniziali: l’Italia non è terreno fertile per questo genere di cose.
Un esempio per tutti: Fabrizio Capobianco di Funambol

Funambol

Fabrizio Capobianco non riuscendo a trovare terreno fertile in Italia, si è trasferito negli Stati Uniti, ha preso la green card e ha fondato il suo progetto. La sua azienda risiede negli USA ma ha deciso di mantenere lo sviluppo in Italia. Queste sono le sue dichiarazioni ad Alessio Jacona di blogs4biz durente il VentureCamp:

“Gli americani hanno i loro schemi. Se decidono di finanziarti, poi ti vogliono avere vicino, a portata di mano. Hanno bisogno di sapere che, se qualcosa non va, in cinque minuti possono essere nel tuo ufficio e fare la voce grossa”

Sempre su blogs4biz si scopre che:

Funambol resta un’azienda italiana: dei 70 dipendenti attualmente sul libro paga, 40 sono a Pavia, dove sviluppano il software collaborando con la comunità open source. In pratica i finanziatori americani hanno investito su un’azienda offshore.

Questa realtà curiosa, in cui i soldi stanno negli USA e il lavoro è a Pavia, è lo specchio di una realtà che vive di piccola impresa dove molto spesso la conduzione familiare vede tradizionalmente di cattivo occhio la possibilità che altri agenti economici entrino nella proprietà della realtà produttiva.


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Comments

  1. alberto d'ottavi Avatar

    Ciao Luca!

    Sperando di far cosa gradita a te e ai tuoi lettori 🙂 segnalo un mio post con la presentazione di Seed Camp, in cui vengono forniti un po’ di dati sul VC (ops! viisii 😉 in EU http://tinyurl.com/2o8u4y

    Per altre info sul tema rimando a http://1generation.net/ e in particolare alla pagina personale di Capobianco… http://1generation.net/user/131

    Salutone!
    Alberto

  2. S.B. Avatar

    Questo è davvero un post interessante!!! La nostra azienda ha dato mandato da un advisor per cercare VC ed effettivamente i contatti interessanti che abbiamo avuto sono tutti all’estero.

  3. Tara Kelly Avatar

    Secondo me sta nascendo un mini ecosistema di startup e investimenti anche in Italia.

    Lo vedo facendo il fundraising per il primo round di PassPack (ehh… qui si intuisce da subito che ci vorrà anche il *secondo* di round). Abbiamo avuto interesse un po’ da ovunque: degli americani, qualche londinese e anche alcuni gruppi italiani.

    Certo, il “modello funambol” è saltato fuori diverse volte, ma non so se è sempre applicabile. Vedremo.

    Ci sono molti elementi che rendono difficile fare uno start-up veloce ed agile in Italia. Non credo però che il problema sia l’impresa a conduzione famigliare, ne la mancanza di Angel (ci sono, e sono all’attiva ricerca di buoni business in cui investire) — il problema è spesso la mancanza di strumenti finanziari che permettono agli imprenditori (e imprenditrici 😉 ) di velocemente montare una società, aggiustare il tiro senza dover passare per un salasso dal notaio, gestire i liquidi senza combattere con le banche che hanno condizioni che “solo in italia” ecc.

    E a quanto ho capito, anche gli investitori hanno meno vantaggi dei loro colleghi oltremare. Quindi, in realtà, stiamo tutti nella stessa barca. Fa un po’ …. non so: comunità?

    Secondo me possono anche essere gli arbori di un ecosistema italiana del startup.

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