Da qualche giorno Google ha reso disponibile una nuova diavoleria sociale, Google Buzz. Forte della propria onnipresenza, questo nuovo ambiente di condivisione ha tutte le possibilità per affermarsi come uno strumento di diffusione della pratica di condivisione costante a cui Facebook, FriendFeed e Twitter ci hanno abituati. Il meccanismo è semplice: ogni utente alimenta un flusso con i propri contenuti e i propri contatti possono lasciare commenti e ricondividere a loro volta tutto ciò che ritengono interessante.
Proprio nella definizione di contenuti e di contatti si gioca la partita che vede due squadre contrapposte: chi ha visto in Buzz un piacevole strumento e chi ne ha da subito sottolineato la perfidia. Il fatto che Buzz sia integrato al servizio Gmail, dal punto di vista dei contenuti ma soprattutto dal punto di vista dei contatti, ha scatenato le ire di molti che vedono così in pericolo la propria riservatezza, la propria immagine ed in alcuni casi la propria sicurezza personale.
Il flusso di Buzz può essere alimentato da molteplici fonti, come FF sin ora ci ha abituati, e di default vengono attivati i servizi offerti da Google che il nostro profilo sta utilizzando.
I contatti vengono presi direttamente dalla nostra rubrica, e questo è stato un grosso problema per molti che hanno visto le proprie reti sociali, apparentemente disgiunte, intrecciarsi tra loro. La famiglia, gli amici, i colleghi, i conoscenti, prima apparentemente separati nella nostra organizzazione, adesso accomunati e messi tutti insieme per il semplice (e ti pare poco) fatto di far parte della nostra rubrica contatti.
Credo che si debba innanzi tutto ragionare se le cose di cui siamo convinti siano effettivamente come ce le raffiguriamo. Io non sono per niente sicuro che le singole reti di conoscenza, amicizia, familiarità siano veramente disgiunte tra loro.
Credo che il fatto di tenerle disgiunte sia un modo personale di agire per organizzare meglio la propria posizione sociale. Forse la paura che un conoscente possa interagire con la nostra famiglia deriva da un reale pericolo di natura fisica o forse è solo la nostra convinzione di essere l’unica porta tra le nostra mura domestiche e le nostre frequentazioni esterne.
Personalmente non credo che ci siano più pericoli di quelli che già ci sono quotidianamente nella nostra fruizione informativa e l’arricchimento della nostra scatola degli attrezzi è solo un bene per l’evoluzione della specie umana.
Il tempo della schizofrenia online, fatta di un nickname per ogni sito, per ogni stato emotivo, per ogni giorno della settimana sia morto il giorno in cui Facebook chi ha chiesto il nostro nome e cognome e noi, ben felici, abbiamo deciso di farci una foto in primo piano l’abbiamo offerta al mondo.
All’inizio era facile sfruttare l’occasione per continuare a fare esattamente come prima, solo che avevamo una bella foto e un nome ad accompagnare il nostro cambio di mood, ma poi l’aggiunta di tutte le possibili implicazioni, dalla commistione delle diverse reti sociali alle possibilità di autenticazione centrale (google ad esempio), ha reso talmente complesso gestire molteplici identità da scoraggiare molti di noi a vivere più vite insieme.
Le vite distinte si possono ancora avere, ma devono esserlo completamente, sia nel reale che nel “virtuale” (quanto odio fare questa distinzione). Ed è proprio nell’assotigliarsi di questa distinzione che molti sentono il cerchio stringersi. Quel cerchio fatto di possibilità e privilegi che la rete consentiva ai più abili e confidenti.
La popolarizzazione (non certo democratizzazione) dei servizi di condivisione ha lentamente annullato tutto questo, in cambio di una possibilità nuova che prima non c’era: esserci tutti.
Siamo davvero disposti ad esserci tutti?
Photo by Matthew Field – http://flic.kr/p/4vLS2o
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